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MADE IN CHINA...MADE FOR CHINA...DEVELOPED IN CHINA


Mi occupo di Cina da qualche anno: per generale interesse verso l’Asia e la sua storia degli ultimi due secoli, per la mia tesi di laurea specialistica in economia e adesso per la mia tesi di dottorato: internazionalizzazione della Ricerca e Sviluppo (R&S) di impresa in mercati emergenti e innovazione globale generata in questi mercati.

Quest’anno ho avuto l’occasione di trascorrere sei mesi a Shanghai per condividere alcuni pensieri con i ricercatori di Tongji University e raccogliere materiale empirico per la mia tesi.

Da italiano mi sembrava opportuno e utile, per fortuna l’ha pensata così anche il Ministero di Istruzione, Università e Ricerca che mi ha finanziato, concentrarmi sul sistema industriale italiano. Così, sponsorizzato dalla mia università e dal Ministero, sono arrivato a Shanghai a inizio maggio, ho cominciato ad incontrare manager e imprenditori italiani e a spiegare il mio lavoro: cercare di capire quanto dei prodotti che consumiamo nei cosiddetti paesi industrializzati viene ideato, non solo prodotto, in Cina.

Un fenomeno questo che sta prendendo spazio nella letteratura economica e manageriale con il nome di Reverse Innovation. L’idea è che il ciclo di vita del prodotto non abbia più origine con la R&S nelle economie avanzate (USA, Europa, Giappone) per essere commercializzato solo più tardi con piccoli adattamenti nei mercati meno avanzati o in via di sviluppo. Negli ultimi anni si è invece assistito al processo opposto: prodotti e tecnologie che nascono nei paesi emergenti (Cina in primis) e vengono in un secondo momento commercializzati con successo anche nei paesi industrialmente avanzati. Gli stimoli innovativi provenienti dal mercato cinese sono infatti notevoli, in considerazione della sua crescita e di una pianificazione economica particolarmente responsabile. A Shanghai incontro così Renato Soggia, presidente dell’associazione che ospita questo articolo e coordinatore del Suzhou Working Group, che mi offre una pizza italiana (lo studente borsista apprezza sempre) e mi ascolta, a tratti incalzante. Alla fine mi chiede:“Sei sicuro che in Italia vogliano sentirsi dire queste cose?”

…silenzio…

Da tempo mi faccio questa domanda, ma ho imparato ad ignorarla, complice una certa presunzione che il futuro stia in questo e il sospetto che l’Italia sia un po’ indietro rispetto ad altri paesi europei. A incoraggiarmi in questo c’era la mia “fedelissima” letteratura economico-manageriale, negli ultimi anni prolifica di articoli su R&S in Cina. In Italia però, come implicito nella domanda di Renato, l’idea di Cina è forse ancora troppo spesso legata ad uniche argomentazioni di risparmio costi che, seppur esistenti, non sono certo la chiave centrale degli investimenti stranieri in Cina. Non più almeno.

Dopo sei mesi di raccolta dati, discussioni con altri ricercatori e confronti di ogni tipo (culturali più di ogni altro), le conclusioni sono decisamente più incoraggianti. I dati sono in fase di elaborazione ma posso già dire che il trend delle imprese italiane che lavorano in Cina, sebbene ancora molto diverso da quello di alcuni colleghi europei che fungono dabenchmark, guida verso un posizionamento sempre più competitivo della nostra industria. Ancora molto c’è da fare però, e uno dei punti più deboli sembra la tanto citata (pardon, è l’ennesima volta che viene detto) incapacità di fare sistema. Del resto il Suzhou Working Group è una risposta a questa mancanza a cui più volte le istituzioni, o chi per loro, sono state chiamate a sopperire. Non si tratta solo di assistenza e supporto alle imprese che intendono internazionalizzarsi ma della necessità di diffusione di un’informazione e di un’idea di Cina che superi quella di minaccia e rinforzi quella di opportunità.

Non posso però criticare troppo le istituzioni italiane; se riesco a mantenermi studiando lo devo alle borse di studio governative del resto. L’esperienza a Shanghai la devo anche all’ospitalità di un centro di ricerca tedesco, il Research Center for Global R&D Management, all’interno della Tongji University e, più precisamente, in seno alla Sino-German School for Postgraduate Studies. Il mio termine di confronto sono quindi i tedeschi e qui ho avuto modo di toccare con mano oltre che la loro soffocante ma straordinaria organizzazione del lavoro, la loro capacità di fare sistema. Il dipartimento e il centro di ricerca sono interamente finanziati da aziende e soldi pubblici tedeschi che così formano studenti cinesi secondo le proprie esigenze. Ci sono anche tanti studenti tedeschi che vengono qui a ultimare i loro studi di master o prendere il loro PhD (dottorato), finanziati da aziende che poi attingono da questo bacino per i propri bisogni in Germania, Cina e altri paesi. La storia è un po’ diversa per gli studenti italiani che, al rientro in Italia (ammesso che riescano ad esser pagati per venire in Cina), si troveranno di fronte a situazioni ben diverse, di cui peraltro è già stato scritto proprio su questo sito. L’esperienza Italia per quanto riguarda l’investimento in R&S è ben riflessa anche in Cina, ben al di sotto della media europea sia a casa propria che, seppur non calcolabile in termini così precisi, in Oriente, dove tedeschi, francesi, svedesi, svizzeri e finlandesi la fanno da padroni.

E qui torniamo alla domanda di Renato “Sei sicuro che in Italia vogliano sentirsi dire queste cose?”

La risposta è “Probabilmente no”, ma io sono pagato per studiare questo fenomeno e diffonderne i risultati. Detta in breve: individuare le tendenze e potenzialità degli investimenti esteri in Cina, confrontarle con quelle specifiche italiane e verificarne la fattibilità o utilità. Nessuna pretesa di insegnare qualcosa a qualcuno. Io descrivo quello che vedo e provo ad interpretarlo, per la messa in pratica mi rimetto all’esperienza di chi dirige le imprese in mezzo a tante difficoltà.

Di esempi italiani virtuosi, avanguardisti, coraggiosi ed estremamente innovativi ne ho trovati diversi e, al contrario di quanto comunemente pensato, questo approccio non è appannaggio delle grandi imprese. Come l’Italia ha già dimostrato in passato, la visione di un piccolo o medio imprenditore può determinare il successo innovativo di un’impresa. Ecco quindi che tra i miei casi di “innovazione cinese” mi ritrovo Magneti Marelli e Iveco del Gruppo Fiat o Brembo come esempi di grandi imprese, ma anche Esaote e Carel (di cui si parla in un’altra pagina di questo blog), Vibram, Faam, Brachi Engineering, ecc…

L’idea che mi sono fatto, qui espressa in termini generali, è che le aziende italiane abbiano tecnici di rara competenza ma che poco spesso si lascino travolgere da pensieri visionari. Più frequentemente ci si affida agli stessi modelli di internazionalizzazione usati in passato o si cerca di replicare modelli di business già validati su altri mercati. Ma la Cina (e questo me lo insegnano i manager italiani con cui ho parlato) è un mondo a parte, sia dal punto di vista culturale che come fenomeno economico. Spesso la difficoltà per i dirigenti italiani in Cina è proprio riuscire a far passare questa idea ai propri headquarter e convincerli che quello che è stato fatto fino ad adesso non sarà, probabilmente, altrettanto valido anche in Cina.

Simone Corsi è dottorando in Management presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Research Associate presso l’Istituto di Management della stessa e Visiting PhD Student presso il Research Center for Global R&D Management (www.glorad.org) della Tongji University, Shanghai. Il suo passatempo/blog “All’Ombra del Cavatappi” si trova al seguente indirizzo www.radiospin.poloprato.unifi.it/cavatappi. Simone può essere contattato all’indirizzo email s.corsi@sssup.it

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